Martedì 28 luglio alle ore 21.30, presso la corte degli Agostiniani sarà proiettato il capolavoro di Federico Fellini La dolce vita.
Era il 20 maggio del 1960 quando La dolce vita di Federico Fellini vinceva la Palma d’Oro a Cannes. Sessant’anni che sembrano non essere passati per un film che fa da spartiacque, che non è solo una pellicola ma è un vero e proprio manifesto del cinema d’autore.
Il film si è imposto presso pubblico e critica per la molteplicità dei suoi significati, e attraverso un linguaggio in larga misura nuovo e originale, segnando una svolta decisiva nell’idea stessa di cinema e di spettacolo. La dolce vita, inoltre, fu responsabile della creazione e della diffusione del mito di Fellini e incise profondamente nel panorama del cinema dei primi anni ’60, come opera isolata, inimitabile e fuori dagli schemi. Il film rappresentò anche uno snodo cruciale non solo per la filmografia di Fellini, ma anche per un modo nuovo d’intendere il cinema. Kubrick, Bergman, Kurosawa, Bresson, Scorsese, Stone, Spielberg, Tarkowsky, Wenders, Almodovar diranno via via di sentirsi debitori ciascuno di qualcosa nei confronti del film.
La dolce vita rappresenta l’ingresso del cinema italiano nella modernità, sfidando apertamente le consuetudini percettive del pubblico dell’epoca. La struttura a episodi del film, intessuta di simboli, presenze e allegorie visive, si può leggere come una significativa successione di epifanie, in una commistione di presunto sacro e dichiarato profano i cui confini appaiono sfumati, indefiniti, spesso ribaltati. In definitiva La dolce vita racconta un mondo privato dei miti in cui la donna, la nobiltà, la cultura, la religione cadono e si sgretolano in quanto tali. Fellini riesce a mostrare, con l’ironia che lo contraddistingue, le contraddizioni, i vizi e le virtù dell’uomo, della società e del contemporaneo. Come osservò Georges Simenon: "Il film colpisce là dove non vorremmo essere colpiti... l'uomo d'oggi non è sempre disposto a riconoscersi e Fellini lo obbliga a farlo suo malgrado". Oltre alla Palma d'oro al 13° Festival di Cannes, con la giuria presieduta dallo stesso Simenon il film raccolse sei nominations all'Oscar, e vinse una statuetta per i migliori costumi, ritirata da Piero Gherardi.
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